Una concreta speranza per intervenire in tempo dato che, di norma, le pazienti non presentano sintomi specifici e la diagnosi della malattia avviene in fase tardiva.
Utilizzando il PAP test, che consiste nel prelievo di cellule dal collo dell'utero e dal canale cervicale, è possibile diagnosticare i tumori dell'ovaio in fase precoce attraverso l’impiego di nuove tecnologie di sequenziamento del DNA.
La scoperta è frutto di una ricerca, pubblicata sull’autorevole rivista scientifica Jama Network Open, condotta dall'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano, in collaborazione con l'Ospedale San Gerardo di Monza e l’Università di Milano-Bicocca, con il supporto della Fondazione Alessandra Bono Onlus.
Il carcinoma ovarico è il sesto tumore più diffuso tra le donne ed è il più grave per la sua alta mortalità rientrando tra le prime 5 cause di morte per tumore tra le donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni. Ogni anno, nel mondo, colpisce oltre 250.000 donne e ne uccide 150.000. In Italia circa 50.000 donne convivono con questo tumore, ogni anno si diagnosticano 5.200 nuovi casi. L’innovativa procedura riveste una grande importanza in quanto la maggioranza delle pazienti con carcinoma dell'ovaio non presentano sintomi specifici e la diagnosi della malattia avviene in fase tardiva, quando il tumore è avanzato e molto difficile da curare. Se il tumore ovarico viene diagnosticato in stadio iniziale la possibilità di sopravvivenza a 5 anni è del 75-95% mentre la percentuale scende al 25% per i tumori diagnosticati in stadio molto avanzato.
L’ipotesi di partenza è consistita nel fatto che dalla tuba di Falloppio dove nascono la maggior parte dei carcinomi sierosi di alto grado dell'ovaio (che sono l'80% dei tumori maligni dell'ovaio) si potevano staccare, fin dalle fasi precoci, delle cellule maligne che, raggiunto il collo dell'utero, potevano essere prelevate con un test di screening come il Pap test.
Noi oggi sappiamo che fin dalle prime fasi della trasformazione tumorale, le cellule acquisiscono nel loro DNA delle peculiari mutazioni a carico della proteina Tp53, un gene che funge da guardiano del genoma che una volta alterato, guideranno le successive fasi della trasformazione maligna della cellula tumorale. Lo studio, sottolineano i ricercatori, deve essere considerato con prudenza perché attuato in pochi casi, ma i dati sono estremamente convincenti ed incoraggianti.
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